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E’ possibile?

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Una sentenza del Tribunale dell’UE ha stabilito che una suoneria di allarme o di telefono cellulare/smartphone non può essere registrata come marchio sonoro europeo perché considerata priva di originalità. I suoni possono essere registrati come marchi solo se dotati di capacità distintiva cioè devono essere idonei a contraddistinguere prodotti/servizi.

Apriamo una piccola parentesi: la capacità distintiva implica che non possono essere registrati come marchio d’impresa i segni privi di tale carattere, cioè:

  • le denominazioni generiche di prodotti o servizi di uso comune, in quanto appartengono a tutti: ad esempio non può certo essere richiesto l’uso esclusivo di termini come “bio”, “latte” etc.;
  • le indicazioni puramente descrittive, cioè quando il nome del marchio coincide con il prodotto o servizio che deve rappresentare, o quando ne racconta solo le caratteristiche. Ad esempio il nome del marchio di una porta è “super porta” (ne abbiamo parlato qui). 

Quindi come regola generale il cosiddetto “marchio sonoro” deve essere considerato alla stregua di tutti i marchi “tradizionali”, cioè quelli comunemente rappresentati da segni grafici o verbali e, pertanto, per poter essere registrato si deve poter distinguere dagli altri proprio come un marchio “tradizionale”.

L’EUIPO in una decisione di un po’ di anni fa chiarì anche le modalità di deposito di un marchio sonoro: venne cioè chiarito che quando si richiede la registrazione di un marchio comunitario sonoro mediante procedura telematica, si può depositare come allegato anche un documento sonoro contenente il suono in formato MP3 (ne abbiamo parlato qui).

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E’ possibile?

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La Commissione di ricorso EUIPO di recente si è pronunciata in merito ad una questione che aveva già visto respinta, da parte dell’esaminatore, la possibilità di registrare come marchio un segno raffigurante un emoji, in quanto privo del carattere della distintività.

L’esaminatore aveva ritenuto che un emoji avesse una funzione meramente comunicativa e decorativa, pertanto inidoneo a rimanere impresso nella mente dei consumatori. La domanda in appello veniva poi respinta nuovamente dalla Commissione di ricorso EUIPO, la quale confermava la decisione presa dall’esaminatore, adducendo quale motivazione la mancanza dell’elemento distintivo.

Sappiamo che la distintività di un marchio è un elemento essenziale, dal quale non si può prescindere, in quanto consente al consumatore di ricollegare i prodotti contraddistinti dal marchio all’impresa produttrice.

La capacità distintiva implica che non possono essere registrati come marchio d’impresa i segni privi di tale carattere, cioè:

  1. le denominazioni generiche di prodotti o servizi di uso comune, in quanto appartengono a tutti: ad esempio non può certo essere richiesto l’uso esclusivo di termini come “bio”, “latte” etc.;
  2. le indicazioni puramente descrittive, cioè quando il nome del marchio coincide con il prodotto o servizio che deve rappresentare o quando ne racconta solo le caratteristiche (ne abbiamo parlato qui).

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E’ possibile?

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E’ possibile registrare come marchio una parola di uso comune? Diciamo subito che è certamente possibile registrare come marchio una parola di uso comune a condizione che sia dotato di capacità distintiva e che non sia semplicemente descrittivo dei prodotti e/o servizi che contraddistingue.

Facciamo un esempio. L’azienda multinazionale statunitense “Apple” che, tradotto in italiano significa “mela”, contraddistingue la produzione di sistemi operativi, smartphone, computer e dispositivi multimediali che non hanno nulla a che fare con la mela come frutto. In questo caso è stato possibile registrarlo come marchio perchè si tratta di un termine di uso comune che non ha alcuna attinenza col prodotto che caratterizza.

La capacità distintiva implica quindi che non possono essere registrati come marchi d’ impresa i segni privi di tale carattere, cioè le denominazioni generiche di prodotti o servizi o le loro indicazioni descrittive; infatti un marchio è definito “debole” quando non è dotato di capacità distintiva

Diverso e contrario è il caso della volgarizzazione di un marchio. La volgarizzazione di un marchio si verifica quando esso perde la sua capacità di identificare un prodotto specifico e viene associato ad un’intera categoria di prodotti con le medesime caratteristiche, ossia diventa di uso comune per identificare un generico prodotto di quella determinata categoria.

Dopo che un nome è diventato di uso comune, interviene la sua decadenza come marchio in quanto viene meno la sua capacità distintiva. Citiamo ad esempio la penna biro, il thermos, il nylon, la jeep, oggi spesso comunemente usati per identificare rispettivamente una penna a sfera, un contenitore per mantenere fresca una bevanda, un tessile sintetico od un veicolo a quattro ruote motrici (ne abbiamo parlato qui).

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La sua forza

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Sappiamo che un marchio per poter essere registrato deve essere dotato di novità, liceità e, soprattutto, capacità distintiva. La distintività di un marchio è un elemento essenziale, dal quale non si può prescindere, in quanto consente al consumatore di ricollegare i prodotti contraddistinti dal marchio all’impresa produttrice.

La capacità distintiva implica che non possono essere registrati come marchio d’impresa i segni privi di tale carattere, cioè:

  1. le denominazioni generiche di prodotti o servizi di uso comune, in quanto appartengono a tutti: ad esempio non può certo essere richiesto l’uso esclusivo di termini come “bio”, “latte” etc.;
  2. le indicazioni puramente descrittive, cioè quando il nome del marchio coincide con il prodotto o servizio che deve rappresentare, o quando ne racconta solo le caratteristiche (ad esempio il nome del marchio di una porta è “super porta”).

La mancanza di “capacità distintiva” del marchio, è uno dei principali motivi che possono portare all’annullamento di un marchio.  

Un marchio inizialmente privo di capacità distintiva può tuttavia acquisirla in un secondo momento: questo ad esempio si verifica con una forte ed efficace campagna pubblicitaria, la quale può infatti portare i consumatori a riconoscere distintamente un marchio.

Per comprendere quanto forte possa essere il contributo di un’efficace campagna pubblicitaria (nonché della sua eventuale assenza), citiamo il recente caso dei marchi dei vaccini Covid-19: i marchi dei singoli vaccini Comirnaty, Vaxevria o Jannsen non hanno subito quella spinta propulsiva mediatica necessaria a far ricordare al consumatore finale il loro nome. Gli utenti hanno imparato benissimo i nomi delle case farmaceutiche produttrici Pfizer, Astrazeneca, Johnson&Johnson ma i rispettivi marchi dei vaccini hanno subito una spinta tardiva nella comunicazione.

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