non sempre innocuo
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Il “selfie” è utilizzato da molti per auto-immortalarsi in momenti di vita quotidiana; il suo significato è infatti “un autoritratto realizzato attraverso una fotocamera digitale compatta, uno smartphone, un tablet o una webcam puntati verso sé stessi o verso uno specchio, e condiviso sui social network.” (fonte Wikipedia).
A volte però, proprio a causa della facilità di scatto e condivisione, il selfie può nascondere delle insidie anzi, se non utilizzato con attenzione, si può rischiare di sottovalutarlo sino ad incorrere in condotte illecite o comunque borderline. E’ uno strumento entrato ormai nelle aule dei tribunali, ancora nuovo ma già molto utile per la giustizia.
Pensiamo che in alcuni casi è possibile che i selfie possano costituire un efficace strumento probatorio di violazioni contrattuali o anche di infedeltà coniugale perché tutto quello che si posta resta nella memoria di facebook o dello smartphone e non viene mai del tutto cancellato.
Ad esempio, se utilizzato durante le ore di lavoro in violazione di disposizioni contrattuali potrebbe costituire terreno fertile tale da indurre il datore di lavoro ad una possibile azione sino ad arrivare al licenziamento. Questo è accaduto di recente e ha riguardato dipendenti portati dinanzi ai giudici italiani dai loro titolari.
Interessante e curioso è stato anche il caso di un fotografo britannico che dopo una lunga battaglia legale contro un’associazione ambientalista, ha visto riconoscersi il diritto al copyright per un selfie scattato da un “macaco” che dopo vari tentativi si era messo sorridente in posa.
Qui entriamo nella disciplina del diritto d’autore, nel caso di specie del diritto riconosciuto all’autore della fotografia (scimmia o fotografo?); ciò potrebbe costituire un precedente giurisprudenziale e, pertanto, solo l’inizio di altre rivendicazioni di scatti-selfie d’autore futuri.
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